Pagine

sabato 29 agosto 2015

Pensieri e Parole - Non è necessario essere idioti per essere veloci

Yohan Blake
Arriva per tutti quel momento in cui ti rendi conto di aver passato il valico che sta fra la giovinezza e l'età adulta che, inevitabilmente, diventerà vecchiaia. 
Il sintomo che ti illumina su questa sgradevole e poco raccontata verità è unico e inequivocabile.
L'anagrafe non conta nulla. Non sono i capelli che ritrovi sul cuscino al mattino, non è nemmeno quel dolore al ginocchio che si presenta puntuale uno o due giorni prima che il tempo volga al brutto e neppure il fatto che le commesse ventenni non ti accolgano più con un "Ciao!", ma con un "Come posso aiutarla...SIGNORE?". Certo è un brutto colpo, ma sono aspetti superficiali, piccoli segnali trascurabili.
Il suono della campana dell'ultimo giro della gioventù lo senti distintamente il giorno in cui ti scopri intollerante all'ultima tendenza del momento. Il giorno in cui guardi qualcuno un po' più giovane di te (che siano cinque o quindici gli anni che vi separano non importa) che cerca di mettersi al centro dell'attenzione con qualche atteggiamento eccentrico e tu senti nascere dentro un leggero fastidio, che non capisci a cosa sia dovuto, ma cresce sempre di più fino a riempire tutto il tuo spirito, fino a tradursi in una frase ben precisa dentro la tua testa. 
Nell'istante esatto in cui quel sentimento prende una forma sintatticamente comprensibile non c'è più niente da fare. Cerchi di lottare, non è da te avere certi preconcetti. Ognuno è libero di esprimersi come vuole. Quello che provi ti infastidisce. Poi lentamente cedi, ti abbandoni al lato oscuro della forza, la vergogna lascia il passo alla sensazione di essere nel giusto ed è solo il retaggio dell'educazione inculcatati dai tuoi genitori che ti impedisce di  guardarlo con malcelato disprezzo e dirgli, più o meno pacatamente: "Ma vai a zappare!"
Io ho scoperto di aver scollinato il Gran Premio della Montagna poco prima dei quarant'anni, guardando le batterie dei cento metri in una manifestazione internazionale. Europei? Mondiali?
Olimpiadi? Francamente non lo ricordo. Non ricordo nemmeno chi fossero gli atleti in gara. Quello che ricordo perfettamente è che al momento della presentazione dei partenti uno di loro, invece di salutare il pubblico sugli spalti, guardò fisso nella telecamera, si battè un paio di volte sul petto, fece degli strani gesti, terminando il tutto con una strizzata d'occhio a noi che stavamo al di là del teleschermo.
Da quel giorno la mia somiglianza emotiva ad Abraham Simpson è andata aumentando sempre di più.
Mo Farah
Non c'è manifestazione internazionale in cui non aumenti il mio desiderio di invitare quei giovani  a dedicarsi all'agricoltura. Quantomeno.
Quando la telecamera comincia a riprendere gli atleti dietro i blocchi di partenza inizia una serie di stucchevoli pantomime, ammiccamenti, baci allo stemma dello sponsor tecnico, alcuni mimano tigri, altri pistolettate verso noi telespettatori, altri ancora si esibiscono in discutibili danze propiziatorie. Attualmente i peggiori per i miei reflussi biliari sono quelli che con il dito sottolineano il nome del paese che rappresentano: "Ma cosa (censura) ti sottolinei (censura)? Ma cosa pensi? Che non sappiamo leggere? (censura)"
Il fenomeno purtroppo peggiora di anno in anno e se un tempo era ristretto alla cerchia dei velocisti ora dilaga senza freni, senza distinzioni di sesso, religione o provenienza geografica. Nemmeno il valore dell'atleta è una discriminante. Dal peso ai 400 ostacoli, dall'asta ai 1500 metri, quando l'aspirante divo in canottiera vede la telecamera non c'è salvezza possibile e sembra di trovarsi di fronte a un povero idiota posseduto dallo spirito di Marcel Marceau sotto Lsd.

Quando mi trovo davanti allo spettacolo di un venticiquenne muscolato come un buttafuori del Cocoricò che simula disturbi che ricordano il morbo di Parkinson, la mia pressione arteriosa schizza alle stelle, mi si gonfia la giugulare e, nei casi più gravi, mia moglie deve imbracciare il violino e iniziare a suonare per riuscire a placare la mia ira funesta.

Perchè racconto tutto questo? Perchè comincio a chiedermi se la mia è una reazione normale o se ho irreversibilmente imboccato il viale del tramonto, se il mio è buon senso o sono i primi sintomi dell'Alzheimer che mi sta aspettando dietro l'angolo. 
Ma soprattutto per trovare una risposta alla domanda che mi sono posto qualche giorno fa: "Ma è proprio indispensabile essere imbecilli per essere veloci?"

venerdì 28 agosto 2015

Pensieri e Parole - Pechino 2015. L'ultima cartuccia

Gianmarco Tamberi
E ora di cartucce ce ne rimane una sola.
Sarebbe semplice dire che "la sfiga colpisce gli sfigati". Scusate il francesismo.
Semplice e riduttivo.
Se tu hai lavorato duro, hai fatto tutto ciò che dovevi fare, come si dice con scienza e coscienza, contro quella percentuale di imponderabile che c'è in qualunque tipo di attività umana non puoi far nulla. Il problema qui sembra essere che a qualcuno manchi la scienza e ad altri la coscienza. Che i talenti veri della nostra atletica siano pochini, siano mal gestiti e che molti galleggino in una situazione un po' melmosa in cui, se imparano a stare a galla senza agitarsi troppo, possono garantirsi un'esistenza serena e privilegiata per qualche annetto. 
La lezione che esce da questi mondiali è che se non fai i compiti a casa non puoi pretendere di superare la verifica in classe. 
Quando le cose non vanno non puoi dire che la colpa è del Professore che ce l'ha con te, o che il tuo compagno di classe che prende tutti dieci in qualche modo bara (ma tu non hai nessuna prova per dimostrarlo...). Oppure che hai "mangiato qualcosa che ti ha fatto male e non hai potuto rendere al meglio"... 
Questa quando l'ho sentita mi ha fatto veramente incaz... di brutto. 
Pedro Pablo Pichardo
Qualcuno è giustificabile? Certo, alcuni venivano da infortuni gravi, alcuni si sono infortunati all'ultimo momento, altri semplicemente hanno beccato una giornata no di una stagione tutto sommato discreta. Ma questo non può valere per tutti. Non è giustificabile un professionista che si presenta a una rassegna iridata e fa un risultato con cui non si sarebbero vinti i Campionati Italiani Promesse. E non è giustificabile che alla domanda del giornalista, tra l'altro tutt'altro che puntuta e insidiosa, risponda: "Non so cosa sia successo". E' successo che forse non hai fatto ciò che dovevi. Oppure che lo hai fatto, ma a sbagliare è stato chi ha organizzato il tuo programma di allenamento. Oppure che le tue possibiltà di risultato sono quelle e non puoi andare oltre. In ogni caso sei un professionista, devi almeno immaginare cosa non è andato a buon fine. Sei un uomo adulto, devi essere in grado di prenderti le tue responsabilità.
Genzebe Dibaba
In una competizione, e lo dico convintamente e senza retorica, il vincitore finisce sotto i riflettori, ma l'ultimo classificato, se ha dato tutto il meglio di se, è altrettanto meritevole di stima. Ciò che non va nei nostri atleti è la carenza di autocritica, la scarsa capacità di farsi carico delle proprie responsabilità.
Il feroce articolo uscito qualche giorno fa su "Repubblica" (potete leggerlo qui) è stato accolto malissimo da molti nel nostro mondo. "Si parla di noi solo quando le cose non vanno", "Ma che ne sanno di quello che ci sta dietro una stagione" ecc. ecc. Questi sono i commenti che ho letto in giro per il web. E parzialmente li condivido. Così come condivido la critica alla parte dell'articolo che vorrebbe che i minimi di partecipazione venissero ripetuti più volte. Se ottengo il limite ho il diritto di partecipare e il dovere di cercare di essere al meglio in quell'occasione. Ma non si può chiedere a un atleta, che magari deve sforzarsi molto per superare quel limite prima della scadenza dei termini di iscrizione, di trovare un secondo picco di forma a distanza di uno o due mesi. 
Anita Wlodarczyk
Al tempo stesso non possiamo fingere di non sapere che il sistema dei gruppi militari che da un lato è la salvezza del nostro sport, dall'altro crea delle situazioni di "garantismo" a oltranza che invece di promuovere il talento lo soffocano, facendogli intravedere la possibilità di andare avanti con un pacifico tran tran anche senza ottenere grandi miglioramenti. La cosa veramente importante è che si mantenga su livelli medi e si ricordi di salutare e ringraziare il Comandante del corpo di appartenenza quando si trova davanti alle telecamere.
Di Bolt ne nasce uno ogni trent'anni. Le Dibaba, i Taylor, i Pichardo, le Wlodarczyk non crescono sotto gli alberi. Nelle ultime competizioni europee "Under", Tallinn ed Eskilstuna, abbiamo visto molti buoni atleti e qualcuno che ci è parso un talento con la "T" maiuscola. La speranza è quella di non perderli per strada mentre siamo impegnati a mettere la testa sotto la sabbia.

lunedì 24 agosto 2015

Storie e Memorie - Miguel de la Quadra-Salcedo. Il giavellotto come non lo avete mai visto.


Miguel de la Quadra-Salcedo nel 1956
L'evoluzione della  specie procede per tentativi ed errori. A volte Madre Natura apre una "strada", poi "si rende conto" che è sbagliata, la abbandona, e quel prototipo di nuovo animale o pianta scompare.
A volte invece può succedere che uno di quei tentativi dia vita a un prodotto perfetto, a un essere non solo adatto alla vita, ma capace di stupire per le sue capacità.
La storia della vita di Miguel de la Quadra-Salcedo, a suo modo,  racconta entrambi questi aspetti.
Nasce nel 1932 a Madrid, ma quando ha quattro anni la sua famiglia si trasferisce a Pamplona, la città nota per la Corrida di San Firmin tanto amata da Hemingway.
Nel capoluogo della Navarra Quadra-Salcedo brilla ben presto sia per i suoi risultati negli studi di agronomia, sia per il suo fisico potente che ne fa un ottimo lanciatore. Peso, disco,martello giavellotto: per lui non fa differenza. 
I primi grandi risultati arrivano nel disco ai Giochi Internazionali Studenteschi dove è argento nel 1951 in Lussemburgo e bronzo l'anno successivo a Dortmund.
Felix Eurasquin
Ma a uno come lui i "classici" non possono certo bastare e si dedica con un certo successo anche a uno sport tradizionale, molto popolare nelle comunità rurali della zona dove vive, la "barra basca" o "barra aragonese". Una competizione che consiste nel lanciare un pesante bastone di ferro appuntito in un modo simile al lancio del disco frontale. E' questa esperienza che verso la metà degli anni '50, quando è un atleta già affermato in campo internazionale, lo porta a perfezionare insieme all'amico Felix Erausquin una tecnica alternativa per il lancio del giavellotto: si posiziona l'attrezzo dietro le anche, si effettuano un paio di giri in pedana come per il disco e si rilascia. Certo non è facile e al navarrese serve un bel po' di allenamento per riuscire a ottimizzare il nuovo metodo, ma quando finalmente ne diventa padrone il risultato paga, eccome: il 21 settembre del 1956 Quadra-Salcedo, che con la tecnica tradizionale non superava i 50 metri, scaglia l'attrezzo a 82.80m. Da notare che all'epoca il record mondiale era poco oltre gli 83 metri. 
Ma gli organizzatori dei  Gochi di Melbourne sono piuttosto preoccupati da questa nuova metodica che metterebbe a rischio l'incolumità dei giudici di gara, degli altri atleti e forse anche degli spettatori sugli spalti se un attrezzo dovesse prendere una traiettoria sbagliata. Pertanto fanno pressioni sulla Iaaf perchè venga modificato il regolamento, cosa che puntualmente avviene causando grandi rimostranze da parte degli iberici. In patria continueranno ad utilizzare questo stile per qualche anno in manifestazioni non riconosciute e Quadra-Salcedo arriverà a superare i 112 metri.

Il picco della sua carriera arriva nel 1960 con la partecipazione nel lancio del disco alle Olimpiadi di Roma. Il suo palmares a questo punto conta sette titoli di campione nazionale nel disco, due nel peso e uno nel martello, sette record spagnoli nel disco e altrettanti nel martello e diciotto presenze in nazionale Assoluta: è arrivato il momento di appendere le scarpe al chiodo.
Subito dopo i Giochi abbandona la carriera sportiva per iniziare la sua seconda vita, quella da romanzo. Fra il 1961 e il 1963 vive fra gli indios dell'Amazzonia colombiana dove sviluppa una ricerca etnobotanica per il governo del paese. Quando torna in patria inizia a lavorare come giornalista e inviato di guerra per la televisione di stato. Durante la guerra del Congo viene  arrestato e condannato a morte per aver filmato le condizioni di detenzione dei prigionieri. Ne uscirà vivo solo grazie alle pressioni del governo del Generale Franco, ma non si ferma. Racconta le guerre in Eritrea, in Vietnam, il colpo di stato in Cile, la morte di Che Guevara e intervista personaggi del calibro di Salvador Allende, Pablo Neruda, il Dalai Lama, Yasser Arafat.
Quando l'età non gli consente più di correre i rischi a cui si espone un reporter di guerra inizia a lavorare a una serie di programmi sui viaggi d'avventura per TVE.
Oggi, alla bella età di 83 anni, Miguel de la Quadra-Salcedo è ancora attivo nel mondo della TV e conduce "Ruta Quetzal", un programma che tratta di interscambi culturali fra i giovani iberici e quelli dei paesi d'oltreoceano di madrelingua spagnola.


mercoledì 19 agosto 2015

Storie e Memorie - L'importanza di chiamarsi " Sir Seb"

Cesena, metà anni ottanta, tardo pomeriggio, tanto caldo. Ma del nostro gruppo non manca nessuno, tranne quei pochi in vacanza con i genitori o i pionieri dei primi campi estivi organizzati dalle parrocchie.
Per noi le vacanze sono l'allenamento su quella pista  in terra rossa che fa tanto arrabbiare le nostre mamme perchè i calzini, rigorosamente bianchi, si impregnano e non tornano mai più al loro colore originale.
Tutti i giorni andiamo in quello stadio dove siamo ospiti poco graditi, perchè lì "ci gioca la serie A" e anche correre a piedi nudi sull'erba potrebbe danneggiare il prato (tutto vero...no comment). 
E tutti i giorni ascoltiamo i nostri allenatori parlare di Alberto Cova, Said Aouita, Lewis, Andrei, Bubka, Vigneron e ognuno di noi sogna di diventare come quegli eroi di cui ha sentito raccontare le gesta in tv da Paolo Rosi.
E questo è un giorno come tutti gli altri: metà anni ottanta, tardo pomeriggio, tanto caldo. 
Finchè il custode dello stadio non arriva dal nostro allenatore chiedendogli se c'è qualcuno che parla inglese.
Lo stadio di Cesena negli anni '80
Sulle tribune, una trentina di metri dietro di lui, c'è un tizio non troppo alto, molto  magro e con l'aria del turista. Il custode dice che dalle poche parole di italiano che parla crede di aver capito che vorrebbe correre sulla pista e vuole sapere se il nostro tecnico glielo permette.
Lo sguardo del nostro allenatore si posa su di lui e rimane un po' perplesso, si volta verso un collega e gli dice: "Guarda quello là. Dice il custode che vorrebbe correre e che è inglese. Ma non ti sembra che assomigli a Coe?"
Era proprio lui. Era per qualche giorno sulla riviera romagnola e quando aveva saputo che a pochi chilometri c'era ancora una pista in terra rossa, molto meno impegnativa per i tendini, aveva deciso di venire a provarla. 
Purtroppo, o per fortuna, gli smartphone erano ancora di là da venire e ovviamente nessuno andava ad allenarsi con la macchina fotografica, per cui le uniche istantanee di quel giorno restano nei ricordi di chi ha avuto la fortuna di esserci e chi ha avuto la possibilità di scambiare due parole con lui lo ricorda ancora, a distanza di trent'anni, come "un gran signore".
Da oggi Lord Sebastian Coe è il nuovo Presidente della Iaaf e assume questa carica in un momento particolarmente difficile sotto molti punti di vista. Forse ora più che mai avrebbe bisogno di una bella pista in terra rossa.
Good luck, My Lord. 

martedì 18 agosto 2015

Storie e Memorie - Bob Beamon. La storia in sei secondi

Bob Beamon
"C'è sempre qualcosa di cui essere grati. Non essere così pessimista se ogni tanto le cose non vanno come vorresti. Sii sempre riconoscente per gli affetti e per le persone che hai già vicino a te. Un cuore grato ti rende felice."
Se Bob Beamon avesse conosciuto questa massima del Buddah la sua vita sarebbe stata diversa? Sarebbe comunque uscito per le strade di Città del Messico a cercare un bar dove sbronzarsi? Chi può dirlo.
Quello che possiamo dire è che la sera prima della finale olimpica del lungo il ventiduenne newyorkese sta raschiando il fondo del barile della sua vita.
Bob non è uno nato con la camicia. Sua madre muore a venticinque anni di tubercolosi quando lui ha soltanto otto mesi. Il padre se ne è andato subito dopo la sua nascita, non avendo nessuna intenzione di occuparsi di lui.
E' la nonna a fargli da famiglia, a cercare di dargli un educazione, ma non è facile tirar su un ragazzino irrequieto che si sbronza e si fa coinvolgere nelle risse che scoppiano quasi ogni sera nelle strade del Queens.
Forse lo sport potrebbe salvare il piccolo Robert. E' fortissimo sulla pista di atletica, ma ha dei numeri anche sul campo da basket. Quando lo si guarda è facile predirgli un futuro da professionista sulle pedane o fra i canestri.
La svolta arriva quando, durante una gara fra licei,  incrocia la sua strada con quella  di Larry Ellis, un allenatore molto noto, che appena lo vede rimane folgorato dal suo talento. Il destino ha deciso: il suo futuro sarà con le scarpe chiodate ai piedi e la maglia della Texas University di El Paso sulle spalle.
E il 1965 quando lascia New York. Per tre anni lavora duro e continua a progredire, ha un obiettivo: le Olimpiadi messicane. Farà di tutto per raggiungerlo.
Non è facile dire se un uomo ha un brutto carattere o se, semplicemente, è un uomo di carattere. Fatto sta che il ragazzo di Queens ha praticamente raggiunto il suo sogno quando rifiuta di gareggiare contro la Brigham Young University, l'ateneo fondato dai mormoni, congregazione religiosa nota all'epoca per le posizioni apertamente razziste.
Questo "NO" rappresenta l'inizio di una caduta che sembra senza fine. Perde la borsa di studio, viene sospeso dall'università e di conseguenza perde il suo tecnico. Ben presto si ritrova in una situazione finanziaria disastrosa e viene abbandonato dalla moglie.
E' una barca senza timone.
A dargli una mano arriva il suo compagno di squadra Ralph Boston, il primatista mondiale, oro a Roma e secondo a Tokio, che comincia ad allenarlo. Ovviamente in via ufficiosa. La cosa non farebbe piacere a molti.
Boston è l'unica nota positiva in una situazione che giorno per giorno va peggiorando su tutti  fronti. Beamon è scoraggiato, ma decide comunque di partire per il Messico. Ha lavorato duro per essere ai Giochi. Non rinuncerà.
Da dx: Jesse Owens e Ralph Boston
L'angoscia per tutto ciò che gli sta accadendo non lo fa dormire la sera prima della gara e allora decide di andarsene dal villaggio Olimpico per cercare un posto dove la tequila riesca a calmarlo.
La mattina dopo si presenta alla gara ancora un po' stordito e in deficit di sonno.
Anche il tempo non è dei migliori: fa freddo, c'è vento e all'orizzonte si sta preparando un brutto temporale. Non c'è molto da aspettarsi dalla giornata insomma.
Il favorito,ovviamente, è Boston che in qualificazione ha stabilito il nuovo record Olimpico  con 8.27m. 
I primi tre a saltare vanno tutti oltre la linea del nullo. Con quel vento non è facile avere una rincorsa precisa.
"In pedana Beamon" urla il giudice. Ed è come se avesse pronunciato una formula magica per un incantesimo.
A Bob servono solo sei secondi per il suo "abracadabra", da quando muove per la prima volta il piede a quando tocca la sabbia. La rincorsa è veloce, progressiva, i piedi volano, lo stacco è potente. Appena atterra rimbalza via come una molla e continua a correre intorno alla pedana. E' soddisfatto. Sa di aver fatto qualcosa di buono.
Non sa quanto.
"Pensavo di essere arrivato intorno a otto metri e trenta, magari  otto e trentacinque" racconterà in un intervista.
Ai giudici serve un bel po' per misurare il suo salto. Lo strumento ottico non basta, cercano un decametro a nastro. 
Quando circa un quarto d'ora dopo sul tabellone appare la misura lo stadio, letteralmente, esplode. Ma il ragazzo di New York non ha grande confidenza con il sistema metrico decimale e continua a non capire. E' proprio Boston a chiarirgli le idee. "Bob, 8 metri e 90 centimetri sono più di 29 piedi!".
Sembra impazzire di gioia. Corre, balla, salta, prega, poi improvvisamente l'emozione ha il sopravvento, le forze lo abbandonano. Si accascia a terra piangendo. Ha migliorato il record del mondo di 55 centimetri, non riesce a credere a quello che ha fatto.
Ma quel balzo per lui diventa come il volo di Icaro. E' salito talmente in alto che il sole ha sciolto le sue ali di cera.
Dopo i giochi olimpici torna all'Università e cerca di diventare un professionista del basket. Viene anche selezionato per un provino dai Phoenix Suns, ma non ce la fa. E' totalmente travolto dalla sua stessa fama e ricomincia a sperperare il suo denaro in spese folli che non riescono a riempire i suoi vuoti esistenziali. La frustrazione di non riuscire ad essere all'altezza della sua stessa icona lo distrugge. 
Nuovamente sommerso dai debiti cerca di tornare alle gare, ma non è lo stesso uomo. Ha problemi al piede di stacco e non vola più. Non supererà mai più gli otto metri.
Nel '72 si laurea in sociologia e scompare in una vita di anonimato lontano dai riflettori.
"Tu hai ucciso questa specialità" gli disse Lynn Davies, l'inglese olimpionico di Tokio, subito dopo il suo salto miracoloso. Aveva ragione.
Serviranno 23 anni e due atleti fantastici per superare quel record.